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CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV

collettivo «Mauvaise Troupe»

CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV

edizioni Tabor, Valsusa, 416 pagine, 12 euro

Dalla lotta contro l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes

al movimento contro l’Alta velocità in Valle di Susa,

vite e territori in subbuglio si raccontano.

«… vinceremo, qui e altrove. Vinceremo anche contro noi stessi. Contro ciò che talvolta fa di noi non molto di più che dei tristi amministratori dell’esistente. Vinceremo, disputando a pietrate pezzi di territorio alla polizia, gettando lampi di luce negli occhi appannati dalla vita. Producendo il nostro cibo e mettendo in ginocchio un governo. Costituendo forze collettive e condividendo un pezzo di mondo con altri esiliati. Moltiplicando le comuni libere, generando le nostre culture e le nostre storie. Gli spazi in cui queste dieci, mille vittorie possono incontrarsi sono rari. Il notav e la zad sono tra questi. E ne ispirano altri. È questa la loro portata rivoluzionaria».

contrade storie di ZAD e NOTAV


a l’adrech de Fraise

Se il tempo accompagna è una bella passeggiata nei boschi alle pendici del monte Ricordone; sarà anche l’occasione per presentare il numero autunnale di Nunatak…


Terra bruciata

RIFLESSIONI DAL PIEMONTE IN FIAMME

Pubblichiamo un’intervista fatta a Luca Giunti, una riflessione sul tremendo incendio in val Susa. È un estratto dal prossimo numero della rivista Nunatak, in uscita entro la fine di novembre.
Visto che l’argomento sta suscitando un interessante confronto, abbiamo pensato di impaginare una versione dell’articolo in formato “pieghevole” che può essere stampato e diffuso nell’immediato.

QUA il PDF da scaricare!

Dal sito Radio Notav, la stessa intervista con Luca Giunti anche in formato audio:

Radio Notav – incendi, dolo, la cura del territorio.

Per chi fosse poco informato sull’accaduto, segnaliamo questo link dal sito “Nimbus”, un resoconto metereologico e non solo, sul caldo, la siccità e gli incendi.

Siccità e incendi in piemonte, NIMBUS.

 


Escartoun a Radio Notav

In occasione del festival dell’Alta Felicità tenutosi a venaus in val di Susa, nel luglio 2017, Daniele Pepino ha fatto una lunga chiacchierata con Radio Notav sul tema degli Escartoun e le esperienze di autogoverno nelle alpi.

Riportiamo il link al blog di Radio Notav.

radio notav


700 anni di Rivolte Occitane: recensione de “le monde diplomatique”

Pubblichiamo online la recensione di H. Agît Dora del libro “700 anni di rivolte occitane”  che è stata pubblicata in versione cartacea da Le Monde Diplomatique.

In Europa, gli occitani sono il più grande dei cosiddetti “popoli senza Stato”. Patria della lingua d’oc, parlata in un territorio continuo che va dalle Alpi ai Pirenei e dall’Atlantico al Mediterraneo, l’Occitania non ha mai conosciuto un’unità politica, sempre divisa da frontiere altrui (oggi quelle di Francia, Italia e Spagna), e l’occitano ha subìto nei secoli «l’alienazione ingiusta e crudele voluta dalla scuola centralizzata, che offende sin nel profondo dell’anima le classi popolari, facendole vergognare delle loro origini popolari, contadine o montanare» (Tavo Burat). «Vietato sputare per terra e parlare patuà», era scritto nelle scuole della Repubblica francese, dove i bambini venivano puniti, e marchiati con il segnal, perché colpevoli di usare la loro lingua madre, spesso l’unica che conoscevano. Un genocidio culturale, realizzato attraverso la colpevolizzazione dell’intero ambito di vita – famigliare, di villaggio, di comunità – di cui la lingua è espressione, per inculcare nelle classi povere un senso di inferiorità, dipendenza, sudditanza nei confronti della cultura dominante, quella della classe dominante.

È così che, in Occitania come altrove, nelle pieghe della storia, le rivendicazioni linguistiche e identitarie si intrecciano con i conflitti di classe, diventando una trincea di resistenza, un’occasione di riscossa e uno strumento di liberazione (e non certo, come vorrebbe certo progressismo, un’istanza reazionaria).

Questa è la chiave di lettura con cui lo scrittore francese Gérard de Sède interpreta e racconta i suoi Settecento anni di rivolte occitane, definendole tali non perché portatrici di una prospettiva “occitanista” o nazionalista, ma perché inestricabilmente radicate in quel territorio e nella sua storia, una storia marchiata nelle carni da un «atto di predazione coloniale che non si cancella mai completamente» (come scrive nella Prefazione il collettivo «Mauvaise troupe»).

Non a caso i Settecento anni prendono il via dal XIII secolo, da quella che, passata alla storia come “crociata contro i catari”, fu in realtà una vera e propria guerra di conquista finalizzata allo sterminio dell’intera civiltà d’oc e dell’anomalia che rappresentava. Ma neppure un milione di morti bastò ad annientare un tessuto sociale che continuerà ad alimentare sotto le ceneri le braci della resistenza e della rivolta.

Le inarrestabili sollevazioni rurali dei tuchini e dei croquants ai quattro angoli del Paese; la guerriglia impregnata di profezia di ugonotti e camisards tra i monti delle Cevennes; la strana guerra combattuta nei boschi pirenaici dalle demoiselles; le Comuni proclamate a Marsiglia e Narbonne nel 1870; la ribellione dei vignaioli di Linguadoca nel 1907; la resistenza popolare dei maquisards del Limousin; la battaglia contro il campo militare del Larzac negli anni Settanta… Sono solo alcuni degli episodi di una vicenda deliberatamente cancellata dalla storia ufficiale, che Gérard de Sède ripercorre in queste pagine in un racconto appassionato, «non per crogiolarsi nel sogno di un impossibile ritorno al passato, quanto piuttosto per attingere da questo passato la forza per affermarsi aïci e ara, qui e ora».

«L’Occitania di domani – scrive infatti l’autore a conclusione del libro – non dovrà riprodurre al suo interno le strutture dello Stato-nazione, che non ha mai conosciuto nel corso della sua storia. (…) L’Occitania militante ha ben altre preoccupazioni che quella di scegliersi una capitale, di stabilire nuove frontiere e di disegnare le divise dei futuri doganieri, poliziotti e generali. Al tempo stesso una e variegata, l’Occitania dovrà in futuro governarsi senza un modello da seguire; dovrà mettere l’immaginazione al potere, inventando la propria democrazia politica, economica e sociale. (…) essa non partirà da zero. I suoi appigli storici, antichi e recenti, sono molteplici e solidi: la vecchia tradizione del foro e dei centri di potere multipli, la diffusa unità popolare che emerge in ogni periodo di crisi (…), l’emergere negli ultimi anni di movimenti sociali autonomi, una lunga abitudine alla cooperazione, un tenace spirito libertario…».


Alessandro Barile recensisce “700 anni di rivolte occitane”

Sul quotidiano “Il manifesto” del 28 gennaio 2017 è pubblicata la recensione di Alessandro Barile del nostro libro “7oo anni di rivolte occitane“, che riportiamo qua sotto:

A dispetto del luogo comune che vorrebbe la Francia uno dei paesi più “unitari” e omogenei d’Europa, questo è al contrario uno dei territori maggiormente attraversati da spinte secessioniste e federaliste: occitani, corsi, bretoni, baschi, alsaziani e fiamminghi da secoli lottano per il riconoscimento delle proprie specificità nazionali, culturali e politiche. L’esasperato centralismo statuale non è allora la caratteristica peculiare di un territorio particolarmente coeso, ma la risposta necessaria che la Francia è stata costretta a darsi onde evitare l’inevitabile frantumazione. Come si è imposto questo centralismo, è proprio l’oggetto della ricerca di Gérard de Sède, pubblicata in Francia addirittura nel 1970 ma che solo oggi vede la sua edizione italiana per opera meritoria delle edizioni Tabor (tabor.noblogs.org). L’autore si concentra sullo specifico caso occitano, che costituisce un unicum nella storia europea. L’Occitania è infatti il più grande dei territori europei, con una popolazione stimata di 15 milioni di abitanti e una superficie di 196 mila kmq, a non aver mai raggiunto alcuna forma di riconoscimento ufficiale e istituzionale, a non essere mai divenuta Stato. Per dirla con le parole del romanziere Robèrt Martì, “il solo territorio sovrano che il popolo occitano poté mai abitare furono la sua lingua e la sua letteratura”. Una lingua e una letteratura davvero notevoli, che coincisero con l’apice della letteratura medievale trobadorica, e che successivamente si trasformarono in strumento di resistenza all’assimilazione francese dopo il XIV secolo. L’annessione di tutto il Mezzogiorno al nord francese non avvenne però pacificamente. Anche nel caso occitano, i perdenti rimangono senza voce, vittime di una guerra civile mai riconosciuta. Eppure, la pacificazione occitana rimane uno dei capitoli più cruenti della storia francese e della chiesa cattolica. L’istituzione stessa del Tribunale dell’Inquisizione, nel 1184 e perfezionata da Innocenzo III nei primi anni del XIII secolo, rispose alla necessità di stroncare la religione catara in Occitania, un culto popolare che, sfruttando la dimensione religiosa, garantì la continuità di alcuni caratteri tradizionali occitani addirittura pre-romani. La crociata del 1209-1229, la prima contro altri cristiani, solo superficialmente rispose alle esigenze di pacificazione confessionale: molto più concretamente, la religione servì come copertura ideologica di un processo di annessione territoriale di una popolazione aliena alle caratteristiche dei gallo-franchi del nord. L’esagono francese, almeno fino alla fine del XV secolo, era tutt’altro che compatto territorialmente e culturalmente. La stessa lingua, oggi celebrata come elemento di unità culturale dal mare del Nord al Mediterraneo, fino al XVIII secolo avrà vita dura nell’affermarsi in tutto il regno. Solo l’organizzazione delle prefetture garantirà la soppressione di ogni particolarismo locale. Un fenomeno in sé non necessariamente regressivo, ma che calato nella specifica realtà occitana assume la forma della colonizzazione interna. Il saggio di de Sède ripercorre settecento anni di resistenza, di rivolte, di vere e proprie guerre civili combattute da eroi sconosciuti: dalla resistenza religiosa di Bernard Délicieux alle rivolte contadine dei crocquants, dai guerriglieri camisards alle comuni occitane del XIX secolo, per finire nel Novecento dove il movimento occitano assume chiaramente i caratteri progressivi e socialisti nella lotta contro l’accentramento francese e contro l’invasore nazista. La conclusione dell’autore è amara ma sintetizza un fenomeno tipico di certi regionalismi addomesticati dal potere centrale: una volta sconfitta politicamente e sottomessa culturalmente, l’Occitania viene riscoperta in chiave turistica e sotto-culturale proprio da quello Stato centrale nei secoli impegnato alla sua scomparsa reale. Dagli anni Settanta l’Occitania vive la sua “riscoperta”, così come il catarismo, oggi rivalutato (e addirittura rivendicato dai “francesi”) in chiave folcloristica e pacificata. Nel momento in cui non fa più “paura”, l’Occitania diviene elemento culturale da sfoggiare, simbolo della trasformazione democratica dello Stato. Motivo in più per visitare quei luoghi fuori da circuiti turistici prestabiliti, magari partendo proprio dalle Valli occitane piemontesi.


Sabato 12 novembre a Mentoulles

Continuano le presentazioni, dopo venerdì 11 a Torre Pellice, sabato 12 novembre alle ore 21.00 si presenta “700 ANNI DI RIVOLTE OCCITANE”  al circolo Barbarià, a Mentoulles, in Val Chisone. A seguire musica dalle valli.

L’Occitania è innanzitutto l’area di diffusione della lingua d’oc, parlata a sud della Loira, dalle Alpi ai Pirenei e dall’Atlantico al Mediterraneo. Ma è anche il luogo di una originale civiltà che al suo apogeo, nel XII e XIII secolo, fu aggredita e sconfitta in una guerra di conquista passata alla storia come la crociata contro i catari. Da allora, per settecento anni, gli occitani non hanno mai smesso di ribellarsi e di difendere la loro libertà e identità contro il centralismo dello Stato francese. Le rivolte dei tuchini e dei croquants, le guerre dei camisards e delle demoiselles, le Comuni di Marsiglia e Narbonne, la sollevazione dei vignaioli del 1907, l’insurrezione del Larzac… sono solo alcuni degli episodi di questa lotta misconosciuta o deliberatamente cancellata che l’autore ripercorre in questo libro.

Una incursione appassionata nella storia dell’Occitania, la storia di una resistenza che non è affatto conclusa…

Ass. culturale Barbarià
Via Umberto I, n.2
10060, Mentoulles, Fenestrelle, (To)
tel. 0121884007
12-novembre-mentoulles

Venerdì 11 novembre a Torre Pellice

Venerdì 11 novembre 2016 alle ore 21, presso la Società Operaia di Mutuo Soccorso, in via Roma 7 a Torre Pellice, ci sarà la presentazione del libro “700 anni di rivolte occitane”, con l’editore Daniele Pepino. Ingresso libero, tutti invitati!

11-novembre-tabor

 


Giovedì 6 ottobre 2016: inaugurazione Clapìe!

Giovedì 6 ottobre inaugura la biblioteca dell’associazione culturale Clapìe, alle 16 e 30; aperitivo alle 18 e 30, e alle 20 e 30 ci sarà la presentazione di “700 anni di rivolte occitane“. Un momento importante per Tabor, visto che la biblioteca che inaugura è la “Libera biblioteca delle Alpi – Tabor“, che appunto aprirà nei locali dell’associazione Clapìe. Seguiranno su questo blog aggiornamenti e notizie… Tutti invitati! A giovedì.giovedì 6 - Clapìe


Recensione di “700 anni di rivolte occitane”

Dal sito di Carmilla Online, riportiamo l’interessante recensione di Sandro Moiso:

Per una psicogeografia delle rivolte

Le popolazioni sembravano avere acquisito, nel giro di qualche anno di lotta, il gusto della resistenza e della ribellione, già peraltro conforme al loro carattere

Rovesciando l’assunto secondo il quale la piena realizzazione di una nazione e/o di un popolo avviene nel momento in cui questi riescono a dare vita a uno Stato che con i suoi confini e le sue leggi ne delimiti il territorio e suoi cardini linguistici, politici, economici e culturali, si potrebbe affermare, come fa Gérard de Sède, che certi popoli e certe nazioni sono esistiti soltanto resistendo.
Il popolo occitano, per esempio, oppure quello curdo. Soltanto per citare due dei più noti.

Gérard de Sède, nom de plume di Géraud Marie de Sède de Lieoux, nato nel 1921 a Parigi e morto nel 2004, è stato un giornalista ed autore francese, oltre che membro del gruppo surrealista a partire dal 1941, che ha scritto più di 40 libri, spesso collegati alla storia del Midi francese, in particolare della Linguadoca, o ai suoi misteri. Il testo appena tradotto dalle edizioni Tabor era apparso originariamente in Francia nel 1970 ed è stato più volte ristampato nella lingua originale.

L’autore ripercorre nel libro una storia plurisecolare di ribellioni, in cui la questione identitaria e linguistica, si è mescolata molto spesso con quella di classe e ci regala, tra le altre cose, una storia alternativa della formazione dello stato e della società francese che proprio nella soppressione della lingua d’Oc e delle autonomie politiche che accompagnavano l’esistenza delle comunità che l’avevano prodotta aveva posto le sue fondamenta. Compresa l’affermazione di quella lingua d’Oil che da allora avrebbe caratterizzato e costituito la lingua ufficiale del paese. Una lingua nazionale che avrebbe iniziato a prendere il sopravvento fin dai roghi sui quali erano stati bruciati i rappresentanti del catarismo.

Il testo prende inizio proprio a partire dalla sconfitta definitiva di quel vasto movimento religioso di rinnovamento dell’ecumene cristiana. Da quel 16 marzo 1244 in cui la fortezza di Montségur era stata espugnata dall’armata del re di Francia Luigi IX, poi conosciuto come il Santo proprio per i roghi cui aveva condannato gli ultimi difensori di Montségur e per i provvedimenti presi contro gli ebrei del regno oltre che per le due crociate, entrambi fallimentari, da lui indette: la prima in Egitto e la seconda contro l’emirato di Tunisi, durante la quale trovò finalmente la morte. Per dissenteria.

Ma a ripercorrere questa prima fase albigese o catara della storia dell’Occitania è il curatore della recente edizione italiana, tratta da quella francese del 1982, mentre de Sède ci trascina in una appassionante, e talvolta provocatoria, ricostruzione che vede susseguirsi i principali movimenti di rivolta della parte meridionale dell’esagono francese. Tutti sconfitti e tutti destinati a rinascere. Da quello del monaco Bernard Délicieux, che fin dalla fine del XIII secolo sfidò i poteri dell’Inquisizione, del re di Francia e del papa Bonifacio VIII, che aveva da poco canonizzato Luigi IX, proprio nei territori che si pensavano definitivamente liberati dal pericolo ereticale ai Tuchini del XIV secolo, una associazione clandestina di operai, artigiani e contadini che, all’urlo “Rei de Fransa, rei de figas, rei de merda!” erano riusciti a cacciare dalla Linguadoca fin il luogotenente generale del Re. Rivolta, quest’ultima, che inserendosi nel periodo della Guerra dei Cent’anni condotta contro la presenza inglese, sfata il mito dell’unità del popolo francese tutto unito nel difendere la madrepatria, magari sotto la guida della Pulzella d’Orléans.

A seguire arriveranno la rivolta dei Croquants, che presero il loro nome dal paese di Crocq in cui ebbe inizio, nel 1594, la protesta popolare contro una tassa molto esosa, la taglia, che solo i plebei erano tenuti a pagare e la cui azione, anche militare, si prolungò fino ai primi decenni del secolo successivo, mettendo più volte in difficoltà il governo, i suoi condottieri e, naturalmente, anche i rappresentanti dell’alto clero.

Dopo i disordini che si diffonderanno, a fasi alterne, su buona parte del territorio occitano fino al 1646, giungerà poi il momento dell’Ormée e delle rivolte urbane che, a partire dalla città di Bordeaux, sconvolgeranno la Francia agli inizi del governo del Re Sole. Come sottolinea l’autore: “Per tre secoli, la gran parte degli storici ha minimizzato l’importanza della Fronda; considerata, come suggerisce il nome, una rivolta ridicola: brontolio senza conseguenze del parlamento di Parigi, ultimo sussulto dei grandi feudatari contro la monarchia assoluta che, dopo Richelieu, imponeva loro con ferocia l’autorità dello Stato. […] Ma il Parlamento e i principi non furono i soli attori della Fronda: si può anzi dire che non furono gli attori più importanti. Contrariamente a ricostruzioni leggendarie, fu una serie di insurrezioni popolari che diffuse la fronda su Parigi e province, facendone un movimento profondo, serio e possente, non certo riducibile a una mera combinazione tra una lotta corporativista di alti magistrati e un complotto di principi di sangue […] Durante la Fronda, l’insurrezione si accompagnò a un ribollire senza precedenti di idee rivoluzionarie […] E’ dunque comprensibile il dilagare della paura nelle fila dei detentori del potere, tanto che in seguito si applicarono a cancellare le tracce degli avvenimenti: nel 1668, Luigi XIV ordinò di alterare o distruggere i documenti ufficiali relativi al periodo della Fronda” (pp. 129 – 130)

Contro la tirannia del cardinale Mazzarino, il movimento dell’Ormée aveva rivendicato l’instaurazione della democrazia politica e in uno dei suoi manifesti aveva dichiarato che la causa reale della sedizione e della lotta politica “è l’eccessiva ricchezza di qualcuno” (pag. 139)
L’unione dell’Ormée aveva un approccio rivoluzionario. In uno dei suoi libelli, la Généreuse résolution des Gascons, si legge: «Quando nella struttura statale qualche pezzo si usura senza trascinare con sé tutto il corpo, si può puntellare, ma quando tutto crolla e le fondamenta sono compromesse, bisogna posarne delle nuove sulle rovine dell’antico edificio»” (pag.143)

Poi, tra la fine del XVII secolo e l’inizio di quello successivo, sarebbe venuta l’ora dei Camisards, guerriglieri e profeti, che con il loro coraggio reagirono, proprio a partire dalla regione delle Cèvennes, al tentativo cattolico e monarchico di sradicare definitivamente il protestantesimo dal territorio francese. Reazione che, però, a guardar bene non fu solo religiosa ma, principalmente di classe, essendo i suoi protagonisti spesso espressione della parte più povera della società locale.

Tra i Folli di Dio, come venivano anche chiamati quei ribelli:“Improvvisamente, l’ispirazione si impossessava di un uomo, una donna, un adolescente o un bambino, che fino a quel momento nulla distingueva dagli altri. Come le sibille dell’antichità, l’ispirato entrava in trance e parlava in uno stato di alterazione della coscienza. Da notare che quasi sempre si esprimeva in francese, pur non sapendo che l’occitano. E quando infine taceva e tornava in sè, non ricordava più ciò che aveva detto. […] Il profetismo popolare delle Cévennes fu innanzitutto l’esplosione di energie troppo a lungo represse. « In quest’ottica, – scrive Philippe Joutard in Les Camisards – convulsioni e tremori diventavano un vero e proprio linguaggio della persona che non potendosi più esprimere utilizzava la sola parola che gli restava; il suo corpo». Fu uno scatenamento, nel senso proprio del termine, un rifiuto dei limiti, una accorata affermazione di libertà, persino, in un certo numero di casi, di libertà sessuale, anche da parte delle donne. «questo comportamento dei protestanti del 1703, – continua Joutard – si fondava , nel caso degli abitanti delle Cévennes, sui caratteri originali della loro cultura contadina, attenta al gestuale e al meraviglioso, e benevola nei confronti della sacra follia»”. (pp.161 – 162)

Dopo l’autentica guerra delle Cévennes, i cui capi militari erano sorti quasi tutti tra i ranghi degli “ispirati”, ancora altre rivolte segneranno i territori del Sud della Francia nel periodo della Rivoluzione e poi, ancora, negli anni venti del XIX secolo; altre saranno in seguito vicine e contemporanee alla Comune di Parigi e segneranno la prima parte del XX secolo, fino al periodo della Resistenza antifascista e antitedesca, marcata anche quest’ultima da forti contenuti di classe. Non si può qui, per motivi di spazio, riassumere dettagliatamente tutte le vicende di un percorso di speranze e di lotte ricostruite in un testo che, oltre che ad essere molto interessante, si legge anche come un appassionante libro di avventure e che, magari indirettamente, pone comunque almeno due importanti questioni di ordine teorico. La prima riguarda lo sviluppo reale delle lotte di classe, mentre la seconda quali siano gli strumenti metodologici più adatti per interpretare e ricostruire fenomeni sociali di grande portata, ma rimossi dalla Storia ufficiale poiché segnati dalla sconfitta.

Per quanto riguarda la prima, diventa da subito evidente come il radicamento storico di una tradizione di lotte all’interno di un territorio è destinato a proiettarsi sul suo stesso futuro. Le idee di rivolta e le rivolte nascono, soprattutto, su un terreno favorevole. Sostanzialmente già vangato e seminato dalle lotte ed esperienze precedenti. Ed ecco allora che la parola tradizioneacquista un senso diverso da quello che spesso i conservatori hanno voluto tramandare e che, ancor più spesso, il movimento operaio istituzionalizzato nei partiti e in forme diverse di statalismo ha specularmente e passivamente accettato e trasmesso.

La tradizione storica delle lotte nel, sul e del territorio, dall’Occitania alla Valle di Susa, per fare un esempio attuale, sta alla base di forti ed originali movimenti di resistenza che nell’unità di diverse componenti della società e nei loro comuni obiettivi trovano il motivo della loro forza e della loro novità. Anche nella comunicazione dei contenuti. Una novità costituita dalla diversità delle società e delle stesse classi sociali che le compongono, a seconda delle epoche e delle aree geografiche cui appartengono. Lotte quindi che non derivano da un’immaginaria unità ideale ed ideologica che deve sostituire, quasi monoteisticamente, tutte le altre verità o ipotesi, ma che derivano da un bisogno e da un sentire sociale comune e condiviso, fosse anche solo o almeno apparentemente di carattere religioso. Direttamente “dal basso” e dal territorio e non soltanto attraverso un partito, un sindacato o una generica rappresentanza parlamentare più o meno “democratica”.

L’altro problema, quello della metodologia della ricerca e della ricostruzione delle vicende della Storia e delle lotte dal basso, è implicito nella stessa affabulazione condotta dall’autore e dalla scarsa presenza di note, anche bibliografiche, che ne accompagnano l’opera. Metodo che ha fatto arricciare il naso a molti storiografi e critici e che ha fatto sì che a proposito delle sue opere si parlasse di pseudostoria (il termine pseudostoria designa abitualmente uno studio che si presenta come un lavoro storico, ma che non rispetta le regole della metodologia storica. L’opera può perseguire un fine politico, religioso o ideologico; non è pubblicata da una rivista di carattere scientifico e non è stata convalidata da altri studiosi. I principali fatti menzionati e le tesi del libro sono di carattere speculativo, controversi e le fonti non sono citate correttamente e interpretate in maniera parziale).

Certo l’autore racconta, ricostruisce, ricollega tra di loro fatti ed esperienze lontane nel tempo e ogni tanto il lettore vorrebbe avere a disposizione qualche riferimento bibliografico e documento storico in più. Ma, questo, è il problema: non è forse fatta anche la Storia ufficiale di rimozioni costanti delle esperienze che non appartengono alle ragioni della sua ricostruzione e non è forse vero che, quasi sempre le classi in rivolta, quelle più diseredate e deboli, non hanno avuto altra testimonianza scritta che quella dei loro giudici e carnefici? Dai registri dell’Inquisizione agli archivi di Stato? Non è forse una leggenda anch’essa quella dell’obiettività della ricerca storica (e di quella scientifica)? E allora non è forse tutta la Storia ufficiale, scritta da e per i vincitori che giustifica sempre i regimi e i governi e che si insegna nelle scuole, altro che pseudostoria, così come è stata definita nell’ultima nota? Soprattutto quella di un paese, la Francia, che della propria immaginaria unità sociale e linguistica ha fatto un monumento destinato a calpestare i diritti di tutti coloro che non si adeguano?

Dedicato a Nicoletta Dosio, militante no tav che non si adegua.

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