Dal sito di Carmilla Online, riportiamo l’interessante recensione di Sandro Moiso:
Per una psicogeografia delle rivolte
“Le popolazioni sembravano avere acquisito, nel giro di qualche anno di lotta, il gusto della resistenza e della ribellione, già peraltro conforme al loro carattere”
Rovesciando l’assunto secondo il quale la piena realizzazione di una nazione e/o di un popolo avviene nel momento in cui questi riescono a dare vita a uno Stato che con i suoi confini e le sue leggi ne delimiti il territorio e suoi cardini linguistici, politici, economici e culturali, si potrebbe affermare, come fa Gérard de Sède, che certi popoli e certe nazioni sono esistiti soltanto resistendo.
Il popolo occitano, per esempio, oppure quello curdo. Soltanto per citare due dei più noti.
Gérard de Sède, nom de plume di Géraud Marie de Sède de Lieoux, nato nel 1921 a Parigi e morto nel 2004, è stato un giornalista ed autore francese, oltre che membro del gruppo surrealista a partire dal 1941, che ha scritto più di 40 libri, spesso collegati alla storia del Midi francese, in particolare della Linguadoca, o ai suoi misteri. Il testo appena tradotto dalle edizioni Tabor era apparso originariamente in Francia nel 1970 ed è stato più volte ristampato nella lingua originale.
L’autore ripercorre nel libro una storia plurisecolare di ribellioni, in cui la questione identitaria e linguistica, si è mescolata molto spesso con quella di classe e ci regala, tra le altre cose, una storia alternativa della formazione dello stato e della società francese che proprio nella soppressione della lingua d’Oc e delle autonomie politiche che accompagnavano l’esistenza delle comunità che l’avevano prodotta aveva posto le sue fondamenta. Compresa l’affermazione di quella lingua d’Oil che da allora avrebbe caratterizzato e costituito la lingua ufficiale del paese. Una lingua nazionale che avrebbe iniziato a prendere il sopravvento fin dai roghi sui quali erano stati bruciati i rappresentanti del catarismo.
Il testo prende inizio proprio a partire dalla sconfitta definitiva di quel vasto movimento religioso di rinnovamento dell’ecumene cristiana. Da quel 16 marzo 1244 in cui la fortezza di Montségur era stata espugnata dall’armata del re di Francia Luigi IX, poi conosciuto come il Santo proprio per i roghi cui aveva condannato gli ultimi difensori di Montségur e per i provvedimenti presi contro gli ebrei del regno oltre che per le due crociate, entrambi fallimentari, da lui indette: la prima in Egitto e la seconda contro l’emirato di Tunisi, durante la quale trovò finalmente la morte. Per dissenteria.
Ma a ripercorrere questa prima fase albigese o catara della storia dell’Occitania è il curatore della recente edizione italiana, tratta da quella francese del 1982, mentre de Sède ci trascina in una appassionante, e talvolta provocatoria, ricostruzione che vede susseguirsi i principali movimenti di rivolta della parte meridionale dell’esagono francese. Tutti sconfitti e tutti destinati a rinascere. Da quello del monaco Bernard Délicieux, che fin dalla fine del XIII secolo sfidò i poteri dell’Inquisizione, del re di Francia e del papa Bonifacio VIII, che aveva da poco canonizzato Luigi IX, proprio nei territori che si pensavano definitivamente liberati dal pericolo ereticale ai Tuchini del XIV secolo, una associazione clandestina di operai, artigiani e contadini che, all’urlo “Rei de Fransa, rei de figas, rei de merda!” erano riusciti a cacciare dalla Linguadoca fin il luogotenente generale del Re. Rivolta, quest’ultima, che inserendosi nel periodo della Guerra dei Cent’anni condotta contro la presenza inglese, sfata il mito dell’unità del popolo francese tutto unito nel difendere la madrepatria, magari sotto la guida della Pulzella d’Orléans.
A seguire arriveranno la rivolta dei Croquants, che presero il loro nome dal paese di Crocq in cui ebbe inizio, nel 1594, la protesta popolare contro una tassa molto esosa, la taglia, che solo i plebei erano tenuti a pagare e la cui azione, anche militare, si prolungò fino ai primi decenni del secolo successivo, mettendo più volte in difficoltà il governo, i suoi condottieri e, naturalmente, anche i rappresentanti dell’alto clero.
Dopo i disordini che si diffonderanno, a fasi alterne, su buona parte del territorio occitano fino al 1646, giungerà poi il momento dell’Ormée e delle rivolte urbane che, a partire dalla città di Bordeaux, sconvolgeranno la Francia agli inizi del governo del Re Sole. Come sottolinea l’autore: “Per tre secoli, la gran parte degli storici ha minimizzato l’importanza della Fronda; considerata, come suggerisce il nome, una rivolta ridicola: brontolio senza conseguenze del parlamento di Parigi, ultimo sussulto dei grandi feudatari contro la monarchia assoluta che, dopo Richelieu, imponeva loro con ferocia l’autorità dello Stato. […] Ma il Parlamento e i principi non furono i soli attori della Fronda: si può anzi dire che non furono gli attori più importanti. Contrariamente a ricostruzioni leggendarie, fu una serie di insurrezioni popolari che diffuse la fronda su Parigi e province, facendone un movimento profondo, serio e possente, non certo riducibile a una mera combinazione tra una lotta corporativista di alti magistrati e un complotto di principi di sangue […] Durante la Fronda, l’insurrezione si accompagnò a un ribollire senza precedenti di idee rivoluzionarie […] E’ dunque comprensibile il dilagare della paura nelle fila dei detentori del potere, tanto che in seguito si applicarono a cancellare le tracce degli avvenimenti: nel 1668, Luigi XIV ordinò di alterare o distruggere i documenti ufficiali relativi al periodo della Fronda” (pp. 129 – 130)
Contro la tirannia del cardinale Mazzarino, il movimento dell’Ormée aveva rivendicato l’instaurazione della democrazia politica e in uno dei suoi manifesti aveva dichiarato che la causa reale della sedizione e della lotta politica “è l’eccessiva ricchezza di qualcuno” (pag. 139)
“L’unione dell’Ormée aveva un approccio rivoluzionario. In uno dei suoi libelli, la Généreuse résolution des Gascons, si legge: «Quando nella struttura statale qualche pezzo si usura senza trascinare con sé tutto il corpo, si può puntellare, ma quando tutto crolla e le fondamenta sono compromesse, bisogna posarne delle nuove sulle rovine dell’antico edificio»” (pag.143)
Poi, tra la fine del XVII secolo e l’inizio di quello successivo, sarebbe venuta l’ora dei Camisards, guerriglieri e profeti, che con il loro coraggio reagirono, proprio a partire dalla regione delle Cèvennes, al tentativo cattolico e monarchico di sradicare definitivamente il protestantesimo dal territorio francese. Reazione che, però, a guardar bene non fu solo religiosa ma, principalmente di classe, essendo i suoi protagonisti spesso espressione della parte più povera della società locale.
Tra i Folli di Dio, come venivano anche chiamati quei ribelli:“Improvvisamente, l’ispirazione si impossessava di un uomo, una donna, un adolescente o un bambino, che fino a quel momento nulla distingueva dagli altri. Come le sibille dell’antichità, l’ispirato entrava in trance e parlava in uno stato di alterazione della coscienza. Da notare che quasi sempre si esprimeva in francese, pur non sapendo che l’occitano. E quando infine taceva e tornava in sè, non ricordava più ciò che aveva detto. […] Il profetismo popolare delle Cévennes fu innanzitutto l’esplosione di energie troppo a lungo represse. « In quest’ottica, – scrive Philippe Joutard in Les Camisards – convulsioni e tremori diventavano un vero e proprio linguaggio della persona che non potendosi più esprimere utilizzava la sola parola che gli restava; il suo corpo». Fu uno scatenamento, nel senso proprio del termine, un rifiuto dei limiti, una accorata affermazione di libertà, persino, in un certo numero di casi, di libertà sessuale, anche da parte delle donne. «questo comportamento dei protestanti del 1703, – continua Joutard – si fondava , nel caso degli abitanti delle Cévennes, sui caratteri originali della loro cultura contadina, attenta al gestuale e al meraviglioso, e benevola nei confronti della sacra follia»”. (pp.161 – 162)
Dopo l’autentica guerra delle Cévennes, i cui capi militari erano sorti quasi tutti tra i ranghi degli “ispirati”, ancora altre rivolte segneranno i territori del Sud della Francia nel periodo della Rivoluzione e poi, ancora, negli anni venti del XIX secolo; altre saranno in seguito vicine e contemporanee alla Comune di Parigi e segneranno la prima parte del XX secolo, fino al periodo della Resistenza antifascista e antitedesca, marcata anche quest’ultima da forti contenuti di classe. Non si può qui, per motivi di spazio, riassumere dettagliatamente tutte le vicende di un percorso di speranze e di lotte ricostruite in un testo che, oltre che ad essere molto interessante, si legge anche come un appassionante libro di avventure e che, magari indirettamente, pone comunque almeno due importanti questioni di ordine teorico. La prima riguarda lo sviluppo reale delle lotte di classe, mentre la seconda quali siano gli strumenti metodologici più adatti per interpretare e ricostruire fenomeni sociali di grande portata, ma rimossi dalla Storia ufficiale poiché segnati dalla sconfitta.
Per quanto riguarda la prima, diventa da subito evidente come il radicamento storico di una tradizione di lotte all’interno di un territorio è destinato a proiettarsi sul suo stesso futuro. Le idee di rivolta e le rivolte nascono, soprattutto, su un terreno favorevole. Sostanzialmente già vangato e seminato dalle lotte ed esperienze precedenti. Ed ecco allora che la parola tradizioneacquista un senso diverso da quello che spesso i conservatori hanno voluto tramandare e che, ancor più spesso, il movimento operaio istituzionalizzato nei partiti e in forme diverse di statalismo ha specularmente e passivamente accettato e trasmesso.
La tradizione storica delle lotte nel, sul e del territorio, dall’Occitania alla Valle di Susa, per fare un esempio attuale, sta alla base di forti ed originali movimenti di resistenza che nell’unità di diverse componenti della società e nei loro comuni obiettivi trovano il motivo della loro forza e della loro novità. Anche nella comunicazione dei contenuti. Una novità costituita dalla diversità delle società e delle stesse classi sociali che le compongono, a seconda delle epoche e delle aree geografiche cui appartengono. Lotte quindi che non derivano da un’immaginaria unità ideale ed ideologica che deve sostituire, quasi monoteisticamente, tutte le altre verità o ipotesi, ma che derivano da un bisogno e da un sentire sociale comune e condiviso, fosse anche solo o almeno apparentemente di carattere religioso. Direttamente “dal basso” e dal territorio e non soltanto attraverso un partito, un sindacato o una generica rappresentanza parlamentare più o meno “democratica”.
L’altro problema, quello della metodologia della ricerca e della ricostruzione delle vicende della Storia e delle lotte dal basso, è implicito nella stessa affabulazione condotta dall’autore e dalla scarsa presenza di note, anche bibliografiche, che ne accompagnano l’opera. Metodo che ha fatto arricciare il naso a molti storiografi e critici e che ha fatto sì che a proposito delle sue opere si parlasse di pseudostoria (il termine pseudostoria designa abitualmente uno studio che si presenta come un lavoro storico, ma che non rispetta le regole della metodologia storica. L’opera può perseguire un fine politico, religioso o ideologico; non è pubblicata da una rivista di carattere scientifico e non è stata convalidata da altri studiosi. I principali fatti menzionati e le tesi del libro sono di carattere speculativo, controversi e le fonti non sono citate correttamente e interpretate in maniera parziale).
Certo l’autore racconta, ricostruisce, ricollega tra di loro fatti ed esperienze lontane nel tempo e ogni tanto il lettore vorrebbe avere a disposizione qualche riferimento bibliografico e documento storico in più. Ma, questo, è il problema: non è forse fatta anche la Storia ufficiale di rimozioni costanti delle esperienze che non appartengono alle ragioni della sua ricostruzione e non è forse vero che, quasi sempre le classi in rivolta, quelle più diseredate e deboli, non hanno avuto altra testimonianza scritta che quella dei loro giudici e carnefici? Dai registri dell’Inquisizione agli archivi di Stato? Non è forse una leggenda anch’essa quella dell’obiettività della ricerca storica (e di quella scientifica)? E allora non è forse tutta la Storia ufficiale, scritta da e per i vincitori che giustifica sempre i regimi e i governi e che si insegna nelle scuole, altro che pseudostoria, così come è stata definita nell’ultima nota? Soprattutto quella di un paese, la Francia, che della propria immaginaria unità sociale e linguistica ha fatto un monumento destinato a calpestare i diritti di tutti coloro che non si adeguano?
Dedicato a Nicoletta Dosio, militante no tav che non si adegua.